Chissà perché, ma di tanto in tanto mi tornano in mente squadre che un tempo furoreggiavano ai massimi livelli europei e che ora, invece, sembrano precipitate nell'oblio. Il Nottingham Forrest ad esempio, che mi piace ricordare perché può vantare lo stesso numero di Champions dell'Inter e della Juve. Oppure il Malines, che ci fece patire le pene dell'inferno nei quarti di finale di Coppa Campioni 1989/90.
Di quest'ultima squadra ho un ricordo vivido, benché siano trascorsi ormai vent'anni. E in genere riservo l'onore dei ricordi vividi ad avversari che non solo ho temuto, ma anche rispettato.
Il Malines (o Mechelen come amavano chiamarlo i cronisti italiani dell'epoca al doppio scopo di fare gli sboroni e di mandare in confusione i pirlotti come me) è stato uno dei più rognosi avversari che il Milan di Sacchi – ma anche il Milan in generale – abbia mai incrociato a livello internazionale. Quel quarto di finale, fra andata e ritorno, fu una vera battaglia senza esclusione di colpi.
Quella squadra non apparteneva all'elite del calcio europeo, e a dire il vero nemmeno di quello belga, tuttavia era reduce da un memorabile trionfo nell'ancora esistente (e prestigioso) torneo di Coppa Delle Coppe di due anni prima, e dall'eliminazione subita in semifinale dello stesso torneo dalla mostruosa Samp di Mancio e Vialli l'anno successivo.
Non aveva fuoriclasse quel bel giocattolo belga, a parte il portiere, un tizio dal nome interminabile e impronunciabile, tal Preud'homme, ma possedeva tanti buoni e grintosi giocatori, tipo il roccioso Clijsteers (scomparso qualche anno fa, papà della tennista Kim), Bruno Versavel e il sosia brutto di Gullit, il bravo Pascal De Wilde. Ed erano allenati da un autentico genio della panca, il bravissimo olandese Aad De Moos.
Non poteva competere con noi a livello di talento, quella squadra. Si sta parlando di Tassotti, Baresi, Maldini, Ancelotti, Donadoni, Gullit, Van Basten, Rijkaard, non so se mi spiego. Eppure i giocatori belgi formavano uno dei blocchi più compatti che io abbia mai visto. Si muovevano all'unisono, avevano un'organizzazione difensiva da far paura, attuavano un pressing snervante e un fuorigioco ossessivo ancor più efficace del nostro, che fino a quel momento era stato considerato all'unanimità il migliore del mondo. Ogni giocatore del Mechelen (faccio un pò lo sborone anche io) si muoveva alla perfezione secondo un piano ben preciso e prestabilito. Magari lo spettacolo che veniva offerto non era esteticamente dei migliori, ma per gli appassionati di tattica si trattava di un qualcosa di divino. Credo che anche lo stesso Sacchi la pensasse così.
Ed erano cattivi, i giocatori del Malines. Molto cattivi. Degli autentici Bad boys, tipo i Detroit Pistons di Isaiah Thomas e Dennis Rodman.
Orbene, la gara d'andata finisce zero a zero col dominio dei belgi fermati da uno strepitoso Giovanni Galli. Quella di ritorno, a San Siro, è viceversa dominata dal Milan, che nei tempi regolamentari dapprima fatica assai contro la sapienza tattica di quei demoni in giallorosso, poi finisce per cozzare contro quel gatto paratutto chiamato Preud'homme.
Due gare praticamente identiche anche nello svolgimento: gioco concentrato in uno striminzito fazzoletto a centrocampo, 2026 infrazioni di fuorigioco fischiate per parte (e noi non avevamo ancora Inzaghi).
Ma veniamo alla gara decisiva, quella di San Siro.
Donadoni, assente all'andata, è in gran spolvero e salta gli avversari, ma si becca stecche paurose, peraltro in maniera scientifica, cioè mai dallo stesso avversario per due volte di seguito; Massaro macina migliaia di chilometri in pressing, tanto da terminare la gara devastato dai crampi; il Cigno di Utrecht evoluisce da par suo sul manto erboso (oddio, più che altro sabbioso) con la solita eleganza ma con inconsueta sterilità. Al resto ci pensa, come detto, l'insuperabile Preud'homme.
Insomma, fatto sta che ci costringono ai supplementari, 'sti maledetti.
All'ennesima stecca subita (la duecentesima o giù di lì) Donadoni perde la testa e mette le mani addosso al picchiatore di turno, mi pare Bruno Versavel, il quale stramazza come se l'avesse colpito un diretto di Mike Tyson. L'arbitro – giustamente – caccia via il nostro centrocampista/ala/mezzapunta (insomma, quel gran giocatore che era).
A questo punto vedo nitidamente l'eliminazione.
Inutile – penso – l'hanno preparata troppo bene. A capo chino decido di arrendermi e, mentre sto accingendomi a tributare un meritato applauso a questi cazzo di belgi che ce l'hanno messo dove non batte il sole, il Tasso, in millimetrica posizione di fuorigioco non rilevato dal guardalinee (complottavamo già allora, pensa che roba…), riceve una palla sulla fascia destra, la crossa al centro per il Cigno che ci mette il magico piedino e implacabilmente insacca. Poco dopo, nel secondo tempo supplementare, il panchinaro Marco Simone sferra il colpo di grazia.
Due a zero. E quegli applausi che fino a poco fa avevo intenzione di tributare agli avversari si trasformano nel gestaccio dell'ombrello. Eseguito, sia chiaro, con estremo rispetto e, visto che il mister era Sacchi, tanta umiltè.